’Non c’è nessun paese della terra in cui l’amore non abbia reso gli amanti poeti’.Voltaire
Ho nostalgia delle mie lettere d’amore. Quelle che mi facevano tornare dal liceo col cuore in gola, correre in camera e quasi svenire nel vederle bianche e lunghe, esauste dal viaggio, un po’ sgualcite dal passaggio di troppe mani, aspettarmi sul letto. Velocemente ne valutavo la consistenza, due? tre pagine?
La voce inesorabile di mia nonna mi chiamava a pranzo: “Lavati le mani e sbrigati siamo tutti seduti”.
Ho nostalgia dell’emozione nel tornare in camera e rispondere tenendo il foglio sotto la versione di greco.
Ho nostalgia del languore che mi prendeva.
Lettere d’amore, poetiche dichiarazioni, lamenti, richieste pressanti che facevano soffrire nel momento stesso che ne godevamo perché l’assenza diventava struggente e la lontananza insormontabile.
Figurarsi per me che fin da allora andavo oltre e dentro il loro significato e ogni parola veniva sezionata e aperta come un carillon per studiarne l’ingranaggio, quelle minuscole rondelline che rilasciavano un suono tanto magico.
Pochi anni, e gli amori sono tutti appesi ad altre comunicazioni velocissime. Davvero – mai come oggi – i dardi di Cupido partono e attraversano l’etere cadono come bombe micidiali e l’assenza si frantuma in tante piccole schegge dolorose e, allora io, proprio come facevo tanti anni fa con la mia lettera, l’ultima, che mettevo sotto il cuscino, mi addormento leggendoti – freddo concentrato di 160 caratteri – fino a quando il ‘display’ non si oscura.
Prendo sonno e nel sonno finalmente torno a scriverti i mille baci per esteso senza quelle stupide, imperative costrizioni che ne fanno 3 xxx.