I fannullon – Fabrizio De Andrè, 1963
Senza pretesa di voler strafare
io dormo al giorno quattordici ore
anche per questo nel mio rione
godo la fama di fannullone
ma non si sdegni la brava gente
se nella vita non riesco a far niente.
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lei tornerà in una notte d’estate
l’applaudiranno le stelle incantate
rischiareranno dall’alto i lampioni
la strana danza di due fannulloni
la luna avrà dell’argento il colore.
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APPROFONDIMENTO
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La parola ‘fannullone’ costituiva, originariamente, l’affettuosa definizione, forse un poco invidiosa, di un professionista dell’ozio, teorico – come piaceva dire a mio nonno, colto in fragranza di sonnellino – della meditazione creativa, o di un libero pensatore affrancato dalla schiavitù del lavoro.
L’aggettivo francese ‘fainéant’ – spesso usato con frivola leggerezza e gentile benevolentia – dall’ arguta e colta Marchesa di Sévigné giunse a noi in epoca poco successiva e nell’attuale senso spregiativo con l’Abbé Saint-Pierre, illuminista radicale (lontano mille anni luce dal ‘nostro Brunettà) che identificò nel ‘faiséant’ la scarsa voglia di lavorare, prerogativa tipicamente italiano.
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Dunque, Evviva il nostro dotto Ministro Brunettà anche se io a lui preferisco la suggestiva canzone di un grande poeta quale Fabrizio De Andrè.
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